Ritrarre l’assenza. Né corpo né anima

 

Gli abiti, le tracce che davano forma al corpo, sono i protagonisti indiscussi di tutti gli scatti presenti in mostra. Gli indumenti degli uomini e delle donne che hanno esercitato una professione sono la chiave interpretativa del reale, una chiave che vuole spostare il punto di vista, o meglio di vita, sulla realtà che lì non c’è più, per aprire ad altri percorsi di lettura.

In queste immagini mancano le spalle curve, gli occhi penetranti, la dignità degli sguardi, il colore dei capelli, le rughe dei visi, la mano sicura che stringe con energia il bisturi, ma riecheggiano le pratiche del quotidiano, le atmosfere domestiche, l’attinenza al corpo. Questi abiti prorompono i temi universali della vita nella sua fragilità, i percorsi del pensiero, il tema della morte e dell’elevazione dell’anima. Qui l’abito non è un involucro, un vestimento ma è sinonimo di modo di essere, di abitudine, di concetti universali condivisi, e si apre quindi a un pensiero più ampio che investe la dicotomia del dentro – fuori, del visibile – invisibile, dello spirituale – materiale.anime

Se per il pensiero cristiano il corpo è interamente al servizio dello spirito, allora il vestito che ricopre il corpo ha grande importanza nel rappresentarlo, anche per la simbologia attribuitagli dalle Scritture: dal Libro della Genesi a quello dell’Apocalisse, dalle tuniche di pelli alla veste nuziale dell’Agnello nella Gerusalemme celeste. Prima che Adamo lasciasse il paradiso, Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì: Dio è l’autore del vestito. I vestiti simboleggiano l’estensione del corpo.

L’abito rappresenta la facciata, ciò che si intende mostrare agli altri; è il simbolo dell’io sociale, dell’appartenere a una comunità o del ribellarvi. Abiti stracciati per un’anima lacerata, corretti e puliti per un soddisfacente equilibrio psichico, infantili per il rifiuto di crescere, pieghe rigide e geometriche o sinuose e morbide per il ritmo spirituale.

L’anima è nel corpo e il corpo in vesti simboliche che drappeggiano l’anima, e diventano così l’immagine del suo rivestimento glorioso. Come nella vita comune il vestito è un’estensione esteriore del corpo, ma anche in un certo senso è la manifestazione estetica della personalità, così, metaforicamente e simbolicamente, la veste amplifica la parola della testimonianza, pronunciata dal corpo e custodita dall’anima.

Questi abiti, che delineano l’anatomia umana sottesa, pur nell’apparente loro rigidità, non fanno che sottolineare la potenza interiore che animava quei corpi. Ogni parola scompare nel silenzio. È un universo a parte, abitato liberamente da involucri per l’eternità; un universo che si dilata senza limiti nello spazio.

Scatti chiari, nitidi e repentini per ritrarre i gusci che contenevano l’essenza di tante persone, per parlare di anime rapite in una dimensione sopra le cose, in attesa di rientrarvi. È a partire da questi scatti che le immagini raccontano a noi stessi tutto quello che è successo prima e quanto succederà poi: la vita, come corpo e come anima. Il corpo non c’è più e l’anima, sua essenza, è solo temporaneamente volata via: attraverso la frazione di secondo dello scatto, è resa eterna l’attesa della sua riappropriazione.

Se la fotografia è la porta per entrare nell’anima delle persone, queste immagini sono in grado di frugare nei pensieri delle persone che le vestivano di far scorgere i loro sogni, scoprire i loro progetti, mostrare il loro cammino. Insomma, riportarci alla sostanza delle cose.

Qui la fotografia, nella sua sostanziale ambiguità, evoca la morte in quanto blocca e congela la vita nel suo libero fluire, ma contemporaneamente esprime tutta la sua forza con l’innegabile capacità di sottrarre qualcosa alla caducità. In tutte le immagini, a lato e sempre in angolo, un piccolo scarabeo, simbolo di rigenerazione e risurrezione, di morte e di rinascita del sole, manifestazione del creatore dell’universo, del dio Khepri, il sole che sorge.

Nelle didascalie la parola anima è un leitmotiv: l’abito è la casa del corpo che racchiude l’anima e i suoi segreti.

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Bruno Vagnini si è avvicinato alla fotografia giovanissimo per poi approfondirla presso l’Accademia di Belle Arti di Montreal. Ha sperimentato diverse tecniche e vari settori. Come ha detto Dorotea Lange, “la macchina fotografica è uno strumento che insegna alle persone come vedere senza la macchina”

 Per Gabriella Bonini fotografare il reale è mantenere intatta la fedeltà al dato visivo perché l’immagine fotografica, attraverso la magia dello scatto, è la prova della esistenza stessa delle cose e delle esperienze. Ama sperimentare soluzioni nuove dove fotografia e oggetti di uso quotidiano interagiscono con lo spettatore e lo coinvolgono emotivamente.

INFORMAZIONI
Quando
: Dal 6 aprile al 15 maggio 2009
Dove: Palazzo Caffari – Sede Filiale Cassa Padana Bcc, Via Santo Stefano 25/27, Reggio Emilia
Orari: Dal lunedì al Venerdì, dalle 8.00 alle 13.00 e dalle 14.30 alle 15.30

Ingresso libero

Contatti:
tel.: 0522 541742 oppure 030-9038463
mail: info@fondazionedominatoleonense.it

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